Superleague e l’importanza dei professionisti

Nelle ultime 72 ore abbiamo assistito a una autentica follia collettiva. Tutto è nato da un comunicato rilasciato da 12 tra i più importanti club calcistici al mondo, intorno alla mezzanotte di domenica 18 aprile. In questa sede non ci interessa entrare nel merito delle scelte dei club e della conseguente guerriglia tra federazioni nazionali, internazionali e i sopracitati club, ma esaminare alcuni aspetti, particolarmente interessanti dal punto di vista professionale. Quel comunicato ha avuto un effetto detonante, una polveriera in cui sono intervenuti organi di stampa, influencers e opinion leaders, authorities, istituzioni. Nel dibattito pubblico l’unica voce rilevante è stata quella del fronte che si opponeva alla secessione dei club. L’unico intervento pubblico per conto dei 12 club è stato quello del neo Presidente della Super League, Florentino Perez, ospite di una trasmissione sportiva spagnola. Dall’altra parte abbiamo assistito a manifesti di intellettuali indignati, salotti televisivi che denunciavano la svolta, carta stampata terrorizzata e sconvolta, le federazioni internazionali, cui si sono accodate quelle nazionali e alcuni club, che hanno fatto appello ai valori dello sport, veicolando non troppo velate minacce nei confronti delle squadre coinvolte e dei loro giocatori. In poco tempo questo ampio fronte ha costruito una
narrazione, per quanto retorica, estremamente efficace, posizionandosi a difesa del giuoco e dei suoi principi ispiratori. Poco importa se gli argomenti utilizzati risultano ipocriti o non veritieri. Hanno saputo sfruttare alcuni bias cognitivi, incuneandosi nelle falle e nel silenzio dei fondatori della superlega. Costoro, non solo sono rimasti silenti di fronte alle accuse ma non hanno nemmeno saputo raccontare i benefici e la bellezza della nuova competizione, il cui intento era risollevare il proprio business e quello del prodotto calcio, rendendolo maggiormente attrattivo e moderno agli occhi
dei più giovani. A dispetto dell’impalcatura costruita tra investitori e broadcaster, i 12 club si sono lentamente squagliati di fronte a una montante ondata di protesta che ha coinvolto pure i loro tifosi e i loro tesserati. La mancanza di una media strategy e di un piano di comunicazione ha privato la Superleague di uno storytelling quanto mai necessario, in particolare in un momento di crisi come questo, nel quale i più abili detrattori si sono insinuati per denunciare l’avidità e l’egoismo di queste franchigie.

A ben vedere però ciò che è ancor più mancata è stata una analisi dello scenario politico, del contesto istituzionale e sociale nel quale questa iniziativa si inscrive. Aldilà delle controversie legali, più sbandierate che altro, su cui si potrebbe ampiamente discutere e che riguardano temi come la libera iniziativa privata e il diritto al lavoro, il tema principale riguarda il dialogo con le federazioni di riferimento, i cosiddetti regolatori (vero bersaglio dei club), nonché i rapporti di forza con gli stati nazionali e gli organismi sovranazionali. La Uefa, massimo organismo del calcio europeo, ha ottenuto l’immediato appoggio dell’Unione Europea, le cui posizioni sono state amplificate dai vertici delle istituzioni nazionali e dai leader politici, di ogni grado e colore.

Nell’agone politico non vi è stato un singolo esponente che si sia posizionato a tutela dei club, una compattezza che fatichiamo a ricordare in altre occasioni. Ma la spallata decisiva è stata data dalla Gran Bretagna, con Boris Johnson che ha dapprima minacciato severe sanzioni per i club inglesi e poi lasciato filtrare che la posizione di quelle squadre stavano assumendo dei contorni antinazionali, riproponendo l’annoso scontro prodotto dalla Brexit, una frattura che ancora lacera la perfida Albione. Il Primo Ministro ha giocato abilmente sull’equivoco che questi club avrebbero lasciato la Premier League (ipotesi mai presa in considerazione dai fondatori della Super League) che rappresenta il campionato più ricco e bello del pianeta. Le proprietà dei club inglesi, oltre all’opinione dei loro fan, certamente più contrari alla Super League rispetto ai tifosi spagnoli e italiani, hanno preso atto di un contesto che si stava facendo inagibile, per le pressioni politiche e per la narrazione che si stava costruendo circa la loro responsabilità sociale. Un rapido calcolo costi benefici li ha indotti a considerare che le ripercussioni ambientali nel perseguire la strada tracciate avevano assunto le dimensioni di un danno di immagine talmente significativo da battere
in ritirata. Poco importa in quei casi se l’abc della politica prevede che più duri sono gli attacchi più è necessario tenere la barra dritta. I giochi erano oramai fatti. A ben vedere tutte le trappole che organi di stampa e istituzioni hanno messo nel cammino dei 12 club ha avuto l’effetto sperato e ciò la dice lunga sull’improvvisazione politica e comunicativa dei vari management. Innanzitutto le tempistiche sono apparse quanto meno bizzarre, in considerazione che il giorno dopo del loro comunicato la Uefa avrebbe presentato un nuovo format per la massima competizione europea. Aspettare qualche ora avrebbe certamente trasmesso un messaggio differente e la SuperLeague avrebbe rappresentato l’estrema proposta
per rispondere alla miopia e all’inadeguatezza delle soluzioni della controparte. Invece ha prevalso la volontà di bruciare sul tempo il nuovo format Uefa, guadagnando un piccolo gap che è stato poi sprecato a causa del mutismo delle ore successive, come se il coraggio iniziale si fosse
immediatamente dissolto. Ancor più grave è non aver previsto le violenti e scomposte reazioni delle autorità e dei vertici politici, che hanno costruito un fronte inossidabile. Monolitici stakeholder che hanno effettuato una pressione su shareholders, partner finanziari, commerciali e tifosi. Impensabile che un progetto di tale portata potesse essere lanciato senza un lavoro preparatorio e un sostegno strategico di istituzioni e parti politiche. La necessità di lavorare sotto traccia ha finito per rappresentare un ostacolo alla comunicazione interna ed esterna, entrambe imprescindibili per il successo dell’iniziativa. Parliamo dello sport (uno dei più grandi business al mondo, a dispetto di quanto si è detto in queste ore), governato da logiche e interessi particolari che prevedibilmente avrebbero scatenato un terremoto. L’assenza di un’approfondita analisi degli interessi in gioco, una coalizione troppo debole che non poteva bastare a sé stessa e, in
particolare, la mancata costruzione di consenso intorno a un progetto dalle grandi potenzialità, ne hanno determinato la prematura fine. Pensare di poter affrontare un’impresa così ambiziosa nel 2021, senza affidarsi a professionisti che lavorassero a una media strategy, a un piano di comunicazione e alle attività di public affairs, da lanciare e intensificare nelle ore successive al rilascio del comunicato, ha rappresentato una leggerezza imperdonabile.

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