Oltre Ursula

Oramai la politica viaggia a dei ritmi di velocità tali che eventi relativamente recenti sembrano appartenere ad altre ere geologiche. I suoi attori sono divorati famelicamente e cadono nel dimenticatoio. L’opinione pubblica passa da un beniamino all’altro, senza pietà per i vinti che passano dalla gloria allo sberleffo, e poi all’ombra.

I media hanno frettolosamente lanciato una campagna di beatificazione nei confronti di Mario Draghi, a tal punto che verrebbe da pensare che non attendessero altro. Ed effettivamente questi ultimi giorni hanno generato un effetto centrifuga, amplificato dalle frenetiche prassi democratiche delle consultazioni, ma anche dal contesto economico e finanziario che vive una fase di entusiasmo come testimoniato dallo spread che scende sotto quota 100 (valore minimo da 5 anni a questa parte) e dalla febbre che ha circondato l’acquisto dei BTp a lunga scadenza da parte di investitori esteri ed hedge fund.

Era inevitabile che l’establishment finanziario avrebbe dato man forte alla scelta di Draghi che gode di grande stima e apprezzamento all’estero, da cui si è levata una specie di “ola” negli editoriali delle più autorevoli testate. Al contempo l’Unione Europea ha mandato segnali di giubilo, con entrambi gli occhi fissi sul Recovery Plan che Mario Draghi e la nuova compagine di governo rivisiteranno profondamente, accompagnandolo a riforme di struttura fondamentali. Insomma il profilo dell’ex Presidente della Bce rappresenta una garanzia in termini di affidabilità e competenza per mercati e Istituzioni che peraltro ne hanno dato ampia pubblicità.

Se facciamo un passo di lato e proviamo a osservare la situazione politica e ciò che è successo nelle scorse settimane, possiamo vedere plasticamente come proprio il tema del Recovery Plan fosse non solo la reale posta in palio, ma anche il pomo della discordia. La gestione di questa mole di fondi, come indirizzarli, con quali strumenti e i processi di riforma conseguenti rappresentano dei temi tutt’altro che marginali, soprattutto in rapporto al chi dovesse guidare questa fase delicata e decisiva nel futuro del nostro paese. La leggerezza del Conte Bis è stata quella di sottovalutare questi elementi, prestando il fianco con lungaggini e una progettualità piuttosto fumosa. Basti ricordare che a dicembre Renzi decide di aprire la crisi di governo su quella che ancora è una bozza del Recovery Plan, che solo successivamente viene modificata, dettagliata e approvata in CdM.

Il Recovery Plan e la gestione dei fondi doveva essere l’obiettivo principale di quel governo, per individuare le priorità, far ripartire di slancio il paese, costruire l’Italia del futuro e conseguentemente raccoglierne i frutti dal punto di vista elettorale. Averlo dimenticato ha messo carburante nel serbatoio dei suoi detrattori, sia per chi ha costruito l’operazione, sia per chi l’ha eseguita.

E ora quello schema delle forze progressiste, che viveva nell’esecutivo, rischia di saltare per sempre. In assenza di un’alternativa non averlo difeso fino in fondo e non aver tentato la ricomposizione rappresenta semplicemente una aggravante. 

Ma a ben vedere tra le forze di governo non il solo Renzi, che doveva far saltare Conte per cambiare lo schema e provare a ritrovare ruolo e agibilità, pare trarre giovamento dal cambio di scena. Evidentemente le divisioni all’interno delle due forze principali della ex maggioranza hanno avuto un peso, tutt’altro che trascurabile: dai movimentisti pentastellati che non hanno mai digerito l’alleanza col Pd e che ora meditano la scissione sull’appoggio al Governo Draghi, ai centristi del Pd che accusano il proprio partito di subalternità verso Conte e il Movimento e guardano più ai moderati (e Renzi) per costruire la coalizione. Aria di resa dei conti che potrebbe maturare presto. Nel Pd gli ex renziani affilano le armi in vista del Congresso, provando a compattarsi nel fronte del Nord, composta da amministratori locali e guidato da Bonaccini. Tra i 5 Stelle Di Battista e Casaleggio, ciascuno per conto loro, preparano la frattura, mentre Grillo porta il Movimento nella nuova maggioranza. Tra i pentastellati si fa largo sempre con maggior insistenza la soluzione più indolore, che forse non eviterebbe una scissione, ma farebbe ritrovare slancio a una forza in balia degli eventi e oramai con le spalle al muro, proprio come il suo ex alleato. L’ipotesi in questione è quella di Giuseppe Conte alla guida del Movimento, che consentirebbe non solamente un rimbalzo elettorale, ma anche di tenere viva l’alleanza col Pd, o perlomeno con chi ha sponsorizzato questo schema nel precedente anno e mezzo di governo. L’ex Presidente del Consiglio rinuncerebbe all’idea del partito personale, trovando da subito una base elettorale certa e una struttura politica oramai consolidata, sebbene una sua leadership formale richiederebbe un cambio di volti e linguaggio. Un processo che in questi mesi ha avuto un andamento incostante e mai del tutto convinto. 

L’altro step da compiere per il sodalizio Zingaretti-Grillo doveva essere quello di suggerire al Presidente incaricato di investire sulla ex maggioranza di governo, allargata al massimo a Forza Italia, in pieno stile Ursula, che avrebbe consentito di rendere Renzi meno influente, oltre a dividere il centrodestra. Tale ipotesi avrebbe previsto un ruolo anche per Conte nell’esecutivo, in modo tale da blindare la sua leadership nel centrosinistra. Ora questo scenario pare incrinato non solo dal fatto che Conte alla guida del M5S e contemporaneamente al governo aprirebbe la strada anche agli altri leader di partito (opzione che Draghi e Mattarella rifuggono), ma anche dall’eventuale presenza della Lega nell’esecutivo che ha scombinato i piani del centrosinistra.

Effettivamente se dal lato della Lega ha prevalso una scelta tattica (trainata dai maggiorenti del partito al nord) di stare nella compagine di governo  e per non sottrarsi alla partita del Recovery Plan, dall’altro Draghi non può certo rimanere estraneo alla giravolta di Salvini. Il Presidente Mattarella aveva indicato una rotta precisa che rifuggiva da formule politiche e indicava nel governo istituzionale, con alti profili tecnici, la soluzione ideale. Chiaramente la presenza di quanti più partiti nel governo andrebbe nel senso di temperare la componente politica e alleggerirne il peso, magari scegliendo tra le seconde file e comunque non coinvolgendo i principali leader, ostacolando le mire di Salvini e l’opzione Conte agli Esteri. Di conseguenza ci sarebbe campo libero per i vari Giorgietti, Orlando, Franceschini, Tajani e Di Maio (quest’ultimo a maggior ragione con Conte alla guida del M5S).

Il secondo e ultimo giro di consultazioni scioglierà le riserve con l’obiettivo di fare partire il governo all’inizio della prossima settimana. La Lega confermerà il suo sostegno, che ha incartato Il Movimento e i Dem, mentre questi ultimi proveranno a fissare dei paletti che possano in qualche modo ostacolare l’ingresso del Carroccio. Tutto lascia presagire che alla fine a restare fuori sarà solamente Fratelli d’Italia che nei fatti lancia l’assalto alla leadership del centrodestra, provando ad assorbire il malessere sociale che in questi anni ha ingrossato le fila della Lega. Anche Leu, perlomeno in parte, dovrebbe entrare nella squadra con l’impiego di Roberto Speranza, probabilmente nella medesima casella di prima.

La luna di miele del paese con Draghi sembra già essere cominciata. Vedremo a breve come il Presidente incaricato riuscirà a tenere dentro e annacquare le identità e le richieste dei partiti, costruendo un mix tecnico e politico che abbia quell’aura istituzionale che la figura di Draghi incarna agli occhi di popolo ed élite. Certamente un esecutivo equilibrato e compatto potrebbe rappresentare il miglior viatico per le elezioni alla presidenza della Repubblica, verso le quali Draghi potrebbe ricalcare il medesimo percorso del suo mentore Carlo Azeglio Ciampi.

Quel che è certo è che in Italia si sta aprendo una nuova fase politica, con nuovi attori e riposizionamenti tattici che andranno a delineare le future coalizioni al voto alla fine della Legislatura. La speranza è che possano essere definite regole chiare (a cominciare dalla legge elettorali) e contorni ben definiti tra gli schieramenti, che forse proveranno a utilizzare l’alibi dell’uomo forte per alleggerire le proprie responsabilità ma certamente, in termini strategici, non potranno rinunciare alla loro identità e al tentativo di esercitare un’egemonia nel loro campo e in generale nell’agone politico. Con meno di questo anche i più abili verranno spazzati via velocemente.

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