Il Governo alla prova del Referendum Costituzionale

«Approvate il testo della legge costituzionale concernente”Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n.240 del 12 ottobre 2019?»

E’ questo il quesito del Referendum Costituzionale che doveva svolgersi il 29 marzo, rinviato per l’emergenza COVID-19, e che si svolgerà il 20 e 21 settembre 2020.

Il quesito è semplice e di facile comprensione: gli elettori sono chiamati ad esprimersi sulla diminuzione del numero dei parlamentari (per un totale di 345). In caso di vittoria del sì i deputati scenderebbero a 400 (dagli attuali 630) e i senatori a 200 (da 315). In tutto, un terzo della composizione dell’assemblea legislativa, che oggi conta 945 rappresentanti eletti.

Le motivazioni a sostegno del

  • I costi della politica: il taglio dei parlamentari comporta un risparmio di 100 milioni all’anno. 
  • L’efficienza decisionale: la riduzione favorirebbe un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini.

Le ragioni a sostegno del no

  • La penalizzazione delle Regioni più piccole, che esprimendo meno parlamentari sarebbero meno rappresentate;
  • Un Parlamento meno rappresentativo della popolazione e i conseguenti squilibri che ciò comporterebbe nella tripartizione dei poteri nel nostro sistema;

La prima considerazione riguarda la tipologia di consultazione. Si tratta di un referendum costituzionale (il quarto effettuato nella storia della Repubblica), quindi ha regole diverse da quelle previste dal classico referendum abrogativo a cui siamo abituati. In questo caso non si vota su una legge esistente, ma per decidere se approvare o meno una norma costituzionale. Tecnicamente, il referendum è confermativo di una legge che il Parlamento ha già approvato, con l’iter previsto per le norme di rango costituzionale. La legge di revisione costituzionale è stata approvata in doppia lettura da entrambe le Camere a maggioranza assoluta. Dal momento che in seconda deliberazione la legge non è stata approvata a maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, un quinto dei senatori ha potuto richiedere il referendum confermativo. Una decisione assunta con il beneplacito del M5S, promotore della riforma.

Il referendum confermativo non prevede il raggiungimento del quorum. Il risultato, quale che sia il numero dei votanti, è valido.

La legge in questione prevede la diminuzione del numero dei parlamentari, nella proporzione sopra esposta: 230 deputati in meno, per cui la Camera scenderebbe a 400 deputati, e 115 senatori in meno, che passerebbero quindi a un totale di 200. Il numero totale dei parlamentari scenderebbe a 600 contro gli attuali 945. C’è infine una modifica che riguarda i senatori a vita, con la precisazione che non ce ne possono essere più di cinque in carica fra quelli nominati dal presidente della Repubblica (escludendo gli ex presidenti della repubblica, che restano automaticamente senatori a vita). Attualmente la formulazione è leggermente diversa (almeno in base all’interpretazione che i presidenti della Repubblica hanno dato negli ultimi anni): ogni singolo presidente può nominare, nell’arco del settennato, cinque senatori a vita.

Tutti i partiti presenti in Parlamento, che pure hanno votato quasi all’unanimità in parlamento per il taglio, sono attraversati da tormenti e divisioni. A guidare la partita del Sì c’è il Movimento Cinque Stelle, ma al loro interno non mancano i le posizioni contrarie. 

Lo stesso nel centrodestra. La Lega ha votato a favore del taglio dei parlamentari in tutti e quattro i voti previsti nella lunga gestazione parlamentare. Matteo Salvini ha perciò schierato ufficialmente il partito per il Sì al referendum. Ma non si straccerebbe le vesti per una vittoria del No. «La Lega vota sì anche se non siamo proprietari del cuore e dell’anima degli italiani che dovranno esprimersi sul referendum» ha detto recentemente. La linea è: basso profilo. Del resto lo stesso Claudio Borghi, l’ex presidente della commissione Bilancio della Camera, consigliere economico di Salvini, ha annunciato al Corriere: «Da cittadino voterò No. Da politico e rappresentante dei cittadini ho detto SÌ perché era nel programma della Lega e della coalizione gialloverde ma io sono sempre stato contrario». E persino Giorgia Meloni che sul Sì ha “militarizzato” Fdi è consapevole del fatto che la vittoria del No sarebbe una mazzata al governo e ai Cinquestelle. In Forza Italia la strada del Sì, anche qui formalmente quella prescelta, è tutta in salita, perché il No dilaga. Tra i big forzisti per il No si è schierato Giorgio Mulè, il portavoce del partito. 

I no crescono anche nel Pd, favorevole al taglio dei parlamentari, abbinato però a una riforma complessiva. A partire da una nuova legge elettorale (è saltato l’accordo preliminare con il M5s e Iv) che però non ha fatto finora nessun passo avanti in Parlamento. Nei prossimi giorni una direzione Pd dovrebbe fare chiarezza definitivamente sulla posizione sul referendum. Seppur ci sia già chi ha preso posizione per il No.

Ad ogni modo, indipendentemente dalle posizioni individuali e dalle dichiarazioni di facciata che mascherano le reali intenzioni dei partiti, l’orientamento dell’elettorato sembra largamente in favore del Sì. Al di là delle valutazione di merito, la riforma ha assunto la forma di una rivalsa del fronte dell’antipolitica, cresciuto a dismisura in questi anni di attacco alle istituzione e di sfiducia nei confronti della politica e dei partiti. Pertanto c’è anche un elemento di irrazionalità nel voto che si andrà a sommare e rischia di trasformare l’appuntamento del referendum in un vero e proprio plebiscito, in cui il significato e le effettive conseguenze dell’intervento sui meccanismi di rappresentanza assume un ruolo financo marginale.

Nel frattempo per scongiurare la tempesta perfetta, i 5Stelle e Conte hanno disinnescato l’eventuale insubordinazione del Pd alle urne. Infatti è stata incardinata la legge elettorale in Commissione Affari Costituzionali, vera e propria pietra dello scandalo all’interno della compagine di governo. L’accordo di governo si reggeva sui due pilastri della riforma costituzionale e della legge elettorale. Sulla prima, cavallo di battaglia dei pentastellati, il Pd decise di convergere sul Sì in aula, contribuendo all’approvazione, mentre al momento di procedere con la riforma elettorale il Movimento e Italia Viva, grazie al sorprendente patto Renzi-Di Maio, fecero le barricate, per scongiurare qualsiasi ipotesi di voto anticipato. Ora il cosiddetto Germanicum dovrebbe essere approvato perlomeno in Commissione prima dell’election-day, in modo tale da rafforzare la posizione del Pd sul Sì, togliendo qualsiasi alibi al fronte dem. Per la verità il voto in Commissione sembra più un’azione tardiva, quanto simbolica, che può avere un significato piuttosto relativo. Infatti il rischio di insubordinazione e di franchi tiratori in aula è altissimo. Anche a giudicare dall’alta soglia di sbarramento, fissata al 5%, che costituirebbe un deterrente piuttosto significativo per Italia Viva.

Certamente questa e altre partite, oltre ovviamente ai risultati delle Regionali, rappresentano un vero e proprio campo minato sopra il quale il governo procede, dilaniato dalle tensioni e dagli sgambetti reciproci al suo interno, insidiato da un’opposizione che è tornata a ruggire e non vede l’ora di rimettere le mani sulle leve di comando, con l’opportunità di poter gestire le ingenti risorse a disposizione.

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