L’autunno caldo del Governo

Andrea Mazzoni – Public Affairs Manager Solving BFM

Settembre si preannuncia come uno spartiacque per il Governo giallo-rosso. Le tensioni che scuotono l’esecutivo da mesi, rischiano di esplodere l’indomani dell’election day fissato per il 20-21 settembre, quando si deciderà il destino di 7 Regioni, 160 comuni e del referendum confermativo per la riduzione dei parlamentari. In ognuno di questi passaggi si riflettono le difficoltà e le ansie dell’esecutivo, che ha vissuto un’estate tutt’altro che serena.

Riavvolgendo il nastro, all’insediamento di questo governo, all’incirca un anno fa, a prevalere non fu una visione comune sul paese, che mancava e manca tutt’ora, considerando l’eterogeneità e le differenze delle forze che lo compongono. Il patto che diede vita al Conte Bis si reggeva sostanzialmente nel do ut des rappresentato dall’approvazione della riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari e la modifica della legge elettorale, in senso proporzionale. Il primo pilastro tenne, con il Pd e gli altri alleati che votarono compattamente, mentre al momento di incardinare la legge elettorale, l’inattesa convergenza tra Renzi e Di Maio, che volevano scongiurare qualsiasi ipotesi di voto anticipato, fece saltare il banco.

Ora il Pd si trova tra due fuochi: mantenere fede ai patti, nonostante il disimpegno dei 5S, col rischio di ingrossare le fila dell’antipolitico, votando Sì al referendum, oppure fare marcia indietro per punire l’alleato di governo, rischiando di schierarsi col fronte perdente. Nel frattempo all’interno del centro-sinistra diversi gruppetti, a cominciare da Leu, ma anche dentro il Pd, si stanno schierando per il No. In effetti il voto in aula aveva prodotto non poche tensioni, per una contrarietà ideologica ma anche di opportunità al provvedimento. Seppur il Pd in questi anni abbia spesso messo carburante nel serbatoio dell’antipolitica, scegliendo di competere su quel campo, che era il terreno ideale di confronto dei suoi competitors, che hanno finito per beneficiarne. Dall’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, passando per la campagna referendaria del 2016 al grido “basta privilegi per i politici”. Per cui sarebbe pure complicato giustificare una ritirata sul tema, a meno che la giustificazione non sia quella della convenienza politica. E anche su quest’aspetto ci sarebbe da discutere, visto che la probabilità di un plebiscito in favore del sì sono piuttosto alte. Pertanto Zingaretti e soci si sono dati ai penultimatum, che rimbombano con frequenza settimanale sui quotidiani. Considerando che nemmeno all’interno del Partito Democratico è possibile definire una linea e una posizione comune, il Segretario ha posto delle condizioni per il sostegno al Sì. Sostanzialmente ancora tutto ruota attorno alla legge elettorale: mentre prima doveva essere già in Gazzetta ufficiale, ora i vertici del Pd si accontentano di una approvazione in Commissione (traguardo più simbolico che sostanziale). Ora si marcia in quella direzione, ma non mancheranno i franchi tiratori, a cominciare da Italia Viva, che vuole scongiurare sia il voto sia la modifica in senso proporzionale.

Nel frattempo, a complicare ulteriormente le cose c’è stata la partita delle regionali, da cui né centrodestra né Pd-5Stelle sono usciti indenni. Se infatti in un primo momento l’accordo originario tra Salvini-Meloni-Berlusconi ha rischiato di saltare e mandare in frantumi la coalizione, dall’altro lato Partito Democratico e Pentastellati non sono riusciti ad addivenire all’accordo, se non in Liguria, dove la travagliata e faticosa scelta del candidato ha finito per acuire i contrasti e rafforzare il già favorito Toti. Dunque la compagine di Governo tra le 7 Regioni che vanno al voto e le 3 che c’erano andate precedentemente è riuscita a riproporre il patto civico solo in Umbria e Liguria. Nella prima la sconfitta fu senza appello, nella seconda il rischio è il medesimo. Il tentativo fatto in extremis per riavvicinare le due formazioni in Puglia e nelle Marche, dove l’accordo poteva significare vittoria certa, è andato a vuoto, nonostante l’input del Presidente Conte che aveva deciso di sciogliere le riserve e agevolare il dialogo, spendendosi in prima persona. Scenario bizzarro questo, considerando che questa alleanza, tenuta insieme dal Presidente del Consiglio, secondo diversi esponenti del centrosinistra e del M5S è l’unica formula per contrastare il ritorno al governo del centrodestra, ma al contempo non ha la forza né la convinzione di replicarsi nei territori. Se escludiamo la Valle d’Aosta, dove non c’è elezione diretta del Presidente, il centrodestra ha la possibilità di affermarsi su 4 delle 6 Regioni al voto, mettendo a serio rischio la tenuta dell’esecutivo.

Analizzando le ragioni di queste difficoltà, che sono le stesse che producono confusione e immobilismo all’interno del governo, indubbiamente molte delle cause possono rintracciarsi nelle debolezze e divisioni all’interno dei maggiorenti che sostengono Conte. Nel Pd Zingaretti ha gradualmente perso peso e sicurezze, viene costantemente terremotato dai futuri avversari congressuali (in particolare da Gori e Bonaccini che animano l’area riformista) e la sua “correntina” è sostanzialmente minoritaria tra la maggioranza interna che lo ha eletto, oltre che nei gruppi parlamentari. Inevitabile che questo stretto passaggio anche per l’attuale leader del partito democratico, sempre dilaniato tra chi auspica nella dialettica parlamentare propria del proporzionale e istinti maggioritari mai sopiti, sarà decisivo per il suo percorso politico.

Al contempo il M5S non naviga in acque più tranquille. Si è rimandato il congresso che poteva sancire una drammatica spaccatura tra chi guarda verso altri lidi, gli autonomisti duri e puri e i dialoganti con il centrosinistra. Di Maio tatticamente ha trovato occupati diversi spazi all’interno del Movimento e ha finito per sostenere svariate posizioni, a seconda dell’opportunità politica. Così dopo il disorientamento suscitato dalle sue dimissioni da capo politico, ha visto il suo storico rivale Di Battista farsi paladino dei movimentisti, all’insegna dell’anima originale del Movimento, mentre Grillo intesseva rapporti sempre più stretti con Conte e i vertici del Pd. L’ex capo politico ha agito sostanzialmente in funzione anti-Conte che secondo lui e i suoi più stretti collaboratori vantava l’ambizione di lanciare un’opa su tutto il Movimento e trasformarlo in un partito personale. Di Maio così ha alternato alle posizioni intransigenti e autonomiste, il dialogo e la riconciliazione per un ultimo tentativo di alleanza in Puglia e Marche, forse senza la piena convinzione nelle sue azioni. In tutto ciò il clima all’interno del Movimento si è fatto ancor più teso per i contrasti tra il variegato gruppo dirigente e la Casaleggio Associati, allo scopo di sottrarre la piattaforma Rousseau dal controllo di Davide Casaleggio. Gli esiti di questo processo in divenire, che culmineranno nel primo congresso, sono tutti da indagare, senza escludere sorprese o scissioni.

In tutto questo l’esecutivo deve far fronte, oltre alle spinose questioni economiche, alla ripresa dei contagi e alla ripresa di una delle arterie fondamentali del nostro paese, come la scuola. Il tema si sta affrontando in queste ore, con tutte le relative decisioni da prendere su tamponi, distanziamento, isolamento degli studenti positivi, chiusura delle aule dove si sono riscontrati dei contagi. A tenere banco in questi giorni è un’altra questione connessa, come i mezzi di trasporto pubblici che dovranno sostenere il medesimo afflusso dello scorso anno, senza venire meno alle norme di sicurezze stabilite per l’emergenza. Tra i Ministri le tensioni si acuiscono e i toni si esacerbano, con il Presidente Conte che non esclude un rimpastino (saranno molto limitati i cambi per evitare un nuovo voto di fiducia alle camera) post elezioni regionali. Anche se dopo l’election-day lo scenario potrà essere tutt’altro e le condizioni per procedere potrebbero essere minime. La vittoria del sì richiederebbe tempi tecnici per i decreti di attuazione e per ridisegnare i collegi elettorali. Parliamo di alcuni mesi che ci portano direttamente alla primavera del 2021, unica vera finestra per il voto prima della fine della Legislatura, considerando che subito dopo comincia il semestre bianco in cui il Capo dello stato non può sciogliere le Camere. E poi saremmo al 2022 e all’elezione del Presidente della Repubblica. Ma questa è un’altra storia e ne parleremo un altro giorno.

Non ci resta che osservare e analizzare ciò che succederà in queste settimane e poi avremo la nostra mappa per capire per quanto e come questo governo andrà avanti. E quale strategia gli attori in campo intenderanno elaborare in vista dei prossimi e decisivi passaggi politici.

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