Elezioni regionali: tra rinnovamento e opportunità

Uno sguardo alle scelte e alle dinamiche politiche che interessano centrodestra e centrosinistra nelle elezioni regionali di settembre

Il percorso verso le Regionali 2020 è cominciato talmente tanto tempo fa che ci sembra trascorsa un’era geologica, un po’ come tutti i discorsi pre-Covid, a maggior ragione in politica. Per la verità abbiamo avuto succulenti antipasti a cavallo tra 2019 e 2020 con le elezioni anticipate dell’Umbria e la doppia tornata Calabria Emilia-Romagna.

Nella prima in particolare abbiamo assistito alla riproposizione dell’alleanza di governo, che registrò una sonora sconfitta. Risultato bissato dal centrodestra in Calabria, ma non in Emilia-Romagna, dove si sperava nel colpaccio ma il tradizionale radicamento del centrosinistra (non del tutto svanito lì e in Toscana) e un candidato gradito e popolare, hanno impedito a Salvini e soci di prendersi tutto il bottino, che avrebbe comportato un probabile cedimento del governo.

Parliamo sempre di dinamiche e rapporti di forza precedenti alla crisi, ma risulta utile osservare analogie e differenze rispetto alle strategie che i partiti stanno mettendo in campo verso settembre 2020, quando andranno al voto 7 Regioni. Se si esclude la Valle d’Aosta che ha un sistema sostanzialmente proporzionale, senza l’elezione diretta del Presidente, si parte da un 4 a 2 per il centrosinistra, che ha come obiettivo minimo quello di riportarne a casa almeno 3.

Monitorando l’evoluzione della dialettica tra i partiti delle coalizioni abbiamo osservato sia nel Centrodestra che nel Centrosinistra una difficoltà a individuare candidature condivise, che avessero una carica di innovazione e gradimento allo stesso tempo. L’accordo originario nel centrodestra, stipulato già all’inizio del 2020, prevedeva innanzitutto la riconferma dei Governatori uscenti: il fortissimo Zaia (trainato dalla lista del Presidente, che potrebbe fare il pieno di voti) e il solido Toti, che l’estate scorsa ha lasciato Forza Italia e ha fondato Cambiamo! (immaginava un graduale ingresso nel governo gialloverde, ma il progetto è naufragato sul nascere). Inoltre le candidature erano così ripartite: un’altra in quota Lega in Toscana, due a Fratelli d’Italia nelle Marche e in Puglia, un’altra a Forza Italia in Campania (tradizionale bacino dei forzisti).

I nomi individuati sin da subito sono stati quelli di Acquaroli per le Marche (FdI, deputato ed ex Sindaco di Potenza Picena, già candidato governatore nel 2015), Fitto in Puglia (già Governatore e poi candidato nel 2005) e Caldoro in Campania (anche lui ex Governatore e candidato nel 2015). Pertanto a inizio anno si prefigurava in Campania e nelle Marche la riproposizione delle medesime sfide di 5 anni prima, mentre in Puglia una competizione tra il Governatore uscente e un ex Governatore. In buona sostanza di sei Regioni, gli unici profili che non fossero già stati candidati alle elezioni regionali risultavano essere Arturo Lorenzoni (candidato del centrosinistra in Veneto, indipendente e vice sindaco di Padova), Eugenio Giani (candidato del centrosinistra in Toscana, ex Presidente del Consiglio Regionale) e Susanna Ceccardi (leghista, sfidante di Giani), a cui andrà aggiunto il candidato Pd-M5S in Liguria che sarà scelto nelle prossime ore.

Quel patto stipulato da Salvini, Meloni e Berlusconi ha traballato più volte, arrivando quasi a rompersi, con il leader della Lega che chiedeva discontinuità (in riferimento a Fitto e Caldoro) e giudicava troppo debole Acquaroli. In realtà sondaggi alla mano si era reso conto che l’accordo lo avrebbe ampiamente sfavorito, con il centrodestra molto indietro in Toscana, competitivo in Puglia e addirittura davanti in Campani (prima dell’exploit De Luca che ora è saldamente davanti). In particolare nel mese di maggio il livello dello scontro si era alzato a un livello tale da lasciar presagire candidature separate, con Meloni che non avrebbe mollato Acquaroli e Fitto, mentre Forza Italia si mostrava più dialogante in Campania, dove si registra uno iato fra i dirigenti locali e i maggiorenti romani, in particolare Mara Carfagna che non ha mai fatto mistero di preferire altre figure rispetto a Caldoro. Alla fine dopo una girandola di nomi che ha coinvolto Nuccio Altieri (ex fittiano ora leghista) in Puglia, Gennaro Sangiuliano (direttore del Tg2) e Catello Maresca (magistrato anticlan) in Campania, Massimo Bacci (indipendente, sindaco di Jesi) e Pierluigi Ciarapica (leghista, sindaco di Civitanova) nelle Marche, la coalizione si è giudiziosamente ricompattata nel momento opportuno. Salvini, conscio della determinazione dei suoi alleati che rivendicavano il patto siglato, ha messo da parte le sue velleità, ottenendo importanti candidature per le Amministrative e probabilmente alcune rassicurazioni sul futuro della sua leadership nella coalizione.

Lato centrosinistra, il Pd ha provato ripetutamente l’aggancio con i Cinque Stelle, per riproporre l’alleanza di governo nel territorio. L’occasione più ghiotta si presentava in Campania, dove il Pd era disposto a rinunciare al Governatore uscente in nome di una candidatura unitaria, come poteva essere il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa (che è rimasta un’opzione fino alla fine per i 5Stelle, salvo poi sfilarsi viste le difficoltà di composizione) e ancor di più il Ministro dell’Università Gaetano Manfredi. Poi l’emergenza Covid e l’impennata di popolarità di De Luca (che aveva dichiarato di candidarsi anche in proprio) ha spento gli entusiasmi e cristallizzato la situazione. Anche nelle Marche c’era stato un abbocco ma i pentastellati si sono dimostrati freddi e le tensioni locali hanno fatto il resto, impedendo qualsiasi ipotesi di aggregazione. Alla fine l’unica Regione dove il patto civico sarà in campo è la Liguria. Almeno così era stato deciso a marzo, ma le difficoltà a individuare un candidato sembrano aver rimesso tutto in discussione. Probabilmente l’accordo terrà, ma l’esito sembra scontato, oltre che agevolato da queste incertezze. Sembra un deja-vù, con la riproposizione dello schema umbro e delle medesime difficoltà di replicare l’asse di governo.

Sebbene il governo gialloverde non si pose nemmeno il tema di ripresentare quell’alleanza in tornate regionali e amministrative, il sodalizio Pd-5Stelle ha provato, mai con la necessaria convinzione, a riproporre il modello che governa a Roma sul territorio, forzando il matrimonio (soprattutto da parte del Pd) per provare a costruire un’ipotetica alleanza organica che potesse far emergere le contraddizioni in seno al Movimento, tutt’ora dilaniato tra chi è favorevole a quest’asse e chi immagina una diversa collocazione politica, sicuramente autonoma. Per la verità questi scomposti tentativi di unione hanno generato solamente ulteriori tensioni, indirizzate spesso a Conte, reo (a detta degli esponenti dem) di non esporsi mai per agevolare gli accordi sui territori. Certamente c’è una ragione tattica nel silenzio di Conte, che teme ripercussioni su di lui e sull’esecutivo, ma al contempo non può ignorare le frizioni e uno scarso spirito unitario dei partiti che lo sostengono. Emblematica in tal senso è la foto di Narni, alla vigilia delle elezioni in Umbria, che per la verità assunsero un’importanza fin troppo grande rispetto alla reale dimensione della regione. Il Presidente Conte, che non era mai intervenuto né aveva partecipato a eventi di campagna elettorale, scelse di indire un’iniziativa per presentare la manovra di bilancio, lasciandosi timidamente immortalare assieme ai principali esponenti dei partiti che lo sostengono, oltre che al candidato del patto civico alla Regione Umbria. L’immagine di una sconfitta annunciata, dopo la quale Di Maio si affrettò a rinnegare la scelta, rinunciando a successive intese.

E’ come se non fosse scattata la consapevolezza che l’alleanza strutturale e politica tra le due forze è l’unica formula che consentirebbe a quei soggetti politici di governare il paese. Come se bastasse l’aura di terzietà e pragmatismo del Presidente del Consiglio per riunire e potenziare i due alleati. Dimenticando che l’intesa politica,  la definizione di un’alleanza e la condivisione di una visione comune sono il risultato di perigliosi confronti dialettici e atti coraggiosi che sfidano tatticismi e convenienze personali. E’ pur vero che la crisi ha cambiato dinamiche, rapporti di forza, rilanciando la compagine di governo ma ogni elezioni risente di inneschi e meccanismi specifici che non lasciano spazio a improvvisazioni e aggregazioni che sono tali solo sulla carta e solo fino allo spoglio.

Il tema del rinnovamento (declinato in formule e terminologie più o meno riuscite), che è stato il leit-motiv di un’intera stagione politica e in generale di scelte coraggiose, all’insegna dell’innovazione e del cambiamento, sembrano essere stati deposti, chiusi nel cassetto e pronti per essere riutilizzati strumentalmente, in base all’opportunità politica. Ciò che appare piuttosto evidente è la mancanza di coraggio e di mettere in campo visioni alternative di paese rispetto ad un modello di sviluppo che pare inesorabilmente aver esaurito la sua spinta propulsiva. A maggior ragione in un momento come questo dove c’è l’urgenza di decisioni forti, che servano a ricostruire un Paese e il suo tessuto produttivo, sperimentando sistemi inediti e alleanze nuove tra Stato e imprese, tra cittadini e pubblica amministrazione, tra lavoro e tecnologia, tra organizzazioni datoriali, associazioni di categoria e Sindacati. In particolare aver ignorato quanto di nuovo e vivace è emerso nella società nell’ultimo anno, a cominciare dalle istanze ambientali che hanno trovato grande spazio politico e notevole risonanza tra le nuove generazioni (a testimoniarlo ci sono le recenti elezioni amministrative in Francia), non lascia presagire nulla di buono per la qualità della classe dirigente, in riferimento anche al settore privato. In politica la forma è sostanza e fintanto che il predominio della conservazione, degli interessi di corrente e il tatticismo resterà immutato, a farne le spese sarà la qualità del dibattito pubblico e delle scelte, dure, che il nostro Paese sarà chiamato a prendere.

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